Attendo.
Non importa il cosa. Importa la tensione ad altro.
Attendere
è prepararsi a ricevere, è disporsi ad accogliere quel che la vita dona.
Ciascuno
la propria.
E
disporsi a riconoscere in esso il meglio per noi.
Senza
cercare in altri quel che a tutti viene dato in sana misura e giusto tempo.
Attendere
non ha nulla a che fare con il sostare passivi, magari con rassegnazione o rabbiosa
impotenza. No,proprio no.
Attendere
è tornare a fidarsi del buono che la vita – quella di ciascuno – per ciascuno
prepara e dispensa.
È la
frenesia a chiamare lentezza la distanza tra la vita e la giostra dei desideri.
Non di lentezza si tratta, ma del suo ritmo, reale, forte, vitale.
Attendere
è appello al reale più reale, al concreto più concreto, da accogliere come
dono, non da recepire come dato.
Attendere
dispone a rinnovare quella fiducia basica verso noi stessi, verso la pasta
buona con la quale siamo plasmati; come invito a smettere – almeno per un poco
– di essere in guerra contro noi stessi per dedicarci a interessi più proficui,
a sospettare nei moti del più profondo di noi a favore di parole sguaiate e
rassicuranti che ci si scambia.
Attendere
ci porta al buono originario che è in noi, ci riporta il nostro buon profumo, e
quella terra buona e feconda di cui prenderci cura.