domenica 18 novembre 2012

Attendere


Attendo. Non importa il cosa. Importa la tensione ad altro.
Attendere è prepararsi a ricevere, è disporsi ad accogliere quel che la vita dona.
Ciascuno la propria.
E disporsi a riconoscere in esso il meglio per noi.
Senza cercare in altri quel che a tutti viene dato in sana misura e giusto tempo.
Attendere non ha nulla a che fare con il sostare passivi, magari con rassegnazione o rabbiosa impotenza. No,proprio no.
Attendere è tornare a fidarsi del buono che la vita – quella di ciascuno – per ciascuno prepara e dispensa.
È la frenesia a chiamare lentezza la distanza tra la vita e la giostra dei desideri. Non di lentezza si tratta, ma del suo ritmo, reale, forte, vitale.
Attendere è appello al reale più reale, al concreto più concreto, da accogliere come dono, non da recepire come dato.
Attendere dispone a rinnovare quella fiducia basica verso noi stessi, verso la pasta buona con la quale siamo plasmati; come invito a smettere – almeno per un poco – di essere in guerra contro noi stessi per dedicarci a interessi più proficui, a sospettare nei moti del più profondo di noi a favore di parole sguaiate e rassicuranti che ci si scambia.
Attendere ci porta al buono originario che è in noi, ci riporta il nostro buon profumo, e quella terra buona e feconda di cui prenderci cura.

sabato 13 ottobre 2012

Di silenzio


“Una cosa mi impressiona dei vangeli in maniera tutta particolare: il silenzio di Cristo (…). Silenzio di trent’anni avanti la vita pubblica. E anche a vita iniziata, altri enormi spazi di silenzio. Cosa avrà fatto in questi trent’anni di silenzio? Come si comportava in casa, e di cosa parlava con sua madre, con uso padre; in paese con gli amici? E come faceva sul lavoro?
(…) Credo che si debba pensare molto di più a quello che Gesù non ha detto, pensare a questo silenzio, per capire tutto il resto. Amare il lungo tempo che ha saputo tacere (…).
Di contro non stanno che le nostre parole sfocati, i nostri discorsi inutili e interminabili; e tutti uguali; questo gran dire, che poi non muta nulla, non trasforma.
Io penso che Cristo abbia veramente sofferto di più nel decidersi a parlare che nell’accettare la passione. Articolare un mistero dentro sillabe; dare un suono al silenzio; cercare un’immagine per ciò che è al di là di ogni immaginazione: questa la grande impresa di Gesù. Dire di cose che i cieli stessi non riescono a contenere; e poi cose così delicate, e segrete… Sì, la più grande fatica del Signore deve trovarsi nell’essere stato costretto a parlare! Precisamente: cosa faceva in casa, e in bottega? Levigava legni o parole? Quanto avrà parlato con sua madre? E on Giuseppe, altro taciturno? Strano: i protagonisti sono per lo più in silenzio. Contrariamente a noi, infaticabili tessitori di ragnatele…!
(D.M. Turoldo, Anche dio è infelice)

martedì 4 settembre 2012

Santi


"Ma si può vivere così? Stritolando i giorni, le ore, gli anni. Indicibile sabba del fare, sulle tracce immaginate di un mondo del dopo: dopo che sarò ricco sfacciatamente, o almeno abbastanza, e famoso da sfolgorare, o almeno quel che basta per non essere nessuno, e potente in modo smisurato, o almeno un po’, su qualcuno, almeno su qualcuno. Ti prego, cielo svuotato che non guardo, ti prego. Attesa sciatta di un miracolo pagano in cui non si crede. Lotterie in cui si estenua il desiderio.
E poi dissipare rapporti e affetti. Comandati ad abitare un nulla tremendo senza gioia e leggerezza, che non vede chi resta inchiodato a un’attesa senza risposta.
E non vede il male. Oggi accettato, esibito, sfacciato, indecente come un corpo disfatto dalla povertà che si ignora, o rifatto pezzo per pezzo dalla ricchezza che si ostenta.
Non vede il mondo di merci che afferra empiamente, usa, stritola e butta senza badare. Cose e persone. Alla ricerca di un perenne perdere la nostra lucidità. Per continuare a non vedere, per non sapere.
Santi vogliamo. Santi implacabili. Separati, come vuole la divina genesi della parola, saperati dal sentire banale di una normalità serrata di giudizi e paure. Separati dall’ineluttabile: che ci posso fare. La vita è così. Io sono così. Obbedienti a una normalità ovvia, tutta lì, in quel che capita perché lo abbiamo lasciato capitare.
Santi separati per amore, solo per amore.
Non santi barocchi dagli occhi devotamente rovesciati lontani dal mondo, ma santi laici, anche agnostici e dubbiosi, ordinari di umanità quotidiana che ad occhi aperti con spoglia ostinazione e azione severa resistono e resistono e dicono no, qui il male non passa. Qui, ora, adesso, il male grande che vedo e non nego qui si ferma, attraverso di me non passa. Piccolo credere che in me il male muore ogni ora, sorvegliata come se fosse l’unica estrema incantata ora della mia e nostra vita: non esibisco ricchezza in faccia a chi non ha, non pratico arroganza, non rimando il povero al suo aspettare solitario.
E questo in tutti i nostri giorni finalmente risanati da oltraggi che il silenzio del mondo fa intollerabili, giorni lunghi di rapporti da custodire nelle parole che abbiamo scelto una ad una per il suono di carenza da ricordare quando arriva l’assenza inattesa.
Santità di fuoco e tremenda, come nella Scrittura, dove brucia quel che deve e rimane quel che è necessario.
Santi segreti che non vanno sui calendari, riconosciuti solo da chi sta accanto e ha ricevuto, lui proprio lui, la sua parte di giorno felice, restituito a se stesso dal sollievo di un dire e fare che libera la nostra comune umanità.
Santi creatori di mondi in cui niente è estraneo e il calpestare per caso la terra diventa un pensoso e immaginabile costruire. Il mondo presente, l’unico nelle nostre mani.
E creatori anche del mondo promesso.
Da noi ai nostri figli.
E promesso anche da un cielo che scopriamo forse abitato, che si scruta ora umanamente, senza paura. In un riconoscesi senza dire.
Discreto vedersi e sapersi alleati.
Finalmente senza paura.
Perché insieme è nulla la paura".
(MariaPia Veladiano)

lunedì 13 agosto 2012

L'uomo che cammina


A volte penso al giro dell’oca.
Un gioco semplice e innocuo che ha la capacità di distorcere fin da bambini la percezione del reale.
Forse perché mi pare di stare dentro questa spirale che ora finalmente considero falsa.
Un cammino non lineare, ma a spirale appunto, dove a parità di casella capita di stare a fianco di chi è avanti un giro, due giri.
Già, chi è avanti e chi è indietro, chi va avanti e chi è rimandato indietro.
Il gioco – è noto – si conclude quando il primo entra nell’ultima casella, dopo quella danza avanti e indietro, dentro e fuori negli ultimi numeri che a tutti un po’ è toccata.
Ora so che quello del giro dell’oca è una tentazione, di cui peraltro vive il mondo.
Quella di poter misurare chi sta avanti e chi indietro, chi è riuscito nella sua vita e chi no.
Mi torna alla mente una pagina di Bobin:
“Cammina. Senza sosta cammina. Va qua e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato (…).
Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine.
L’umano è chi va così, a capo scoperto, nella ricerca mai interrotta di chi è più grande”.
(C. Bobin, L’uomo che cammina, Qiqajon Bose)
Avessero inventato un gioco che misura i passi invece dei risultati, che uomini saremmo?

lunedì 16 luglio 2012

Come bambini


La mia caldaia ha subito un guasto.
Così ho passato un paio di settimane senza acqua calda.
Vabbé, è estate.
Con un idraulico e i suoi ritardi inguaribili e un paio di tecnici in anticipo sull’orario concordato.
Inguaribile sembrava pure il guasto.
Nessuna delle diagnosi si è trasformata in terapia efficace.
Finché un tecnico ha intuito che il problema stava in un collegamento sbagliato.
Un errore da stupidi e un problema ben più piccolo rispetto a quello prospettato.
Una scoperta che lo ha del tutto esaltato.
Ho visto un uomo trasfigurato dalla riuscita del suo lavoro, compiacersi del suo risultato (“adesso – ho pensato a un certo punto – si toglie la maglia e va sotto la curva dei tifosi”), come un bambino.
Per me un bel regalo, più gradito del ritorno dell’acqua calda.
Come un bambino. Credo il più bel complimento che si possa fare a un uomo.

lunedì 9 luglio 2012

Ali


"Non poteva essere una talpa. Però non si sentiva un’anatra.
Fu così che cominciò a pensare di non essere niente.
Non sono questo, non sono quello. Dunque, non sono… nessuno.
Ripensò a tutta la sua vita. Non aveva trovato sua madre pantofola, non aveva sposato un castoro (che poi era l’unico castoro a non voler fare il castoro), non era diventata un pipistrello, non viveva con le gru, non aveva più un fidanzato…
Si accorse che la sua vita era stata un serie di non. Non aveva nulla, e non era nulla.
Quando finalmente acquisì questa certezza, divenne nessuno. Cioè qualcuno non si sa ben cosa. Si tolse il pensiero di essere qualcosa di specifico e fu semplicemente qualcosa di indefinito: nessuno. Che poi sarebbe quel che saremo tutti quanti, se solo vivessimo in un mondo di talpe: se la gente non ci vedesse, noi potremmo felicemente non esser un bel niente e non stare neanche tanto a chiedercelo, che cosa siamo o non siamo. Bisognerebbe solo che la gente tenesse gli occhi chiusi. O che tutti quanti vivessimo nel mondo delle talpe. Semplice!
Questo pensiero di non essere nessuno, la tranquillizzò non poco. Le diede un grande senso di pace e di liberazione: cominciò ad andare per strada volando a un metro da terra. Cosa che le permise di accorgersi di avere le ali. Cosa di cui, presa dall’ansia di essere qualcuno, non si era mai accorta.
Era come se di colpo si fosse ricordata di una cosa importante. Le aveva viste tempo fa, le ali, sulla foto del libro che la maestra Tolmer le aveva mostrato a scuola. Aveva a lungo rimirato quella foto, se n’era fatta una fotocopia e se l’era studiata per bene, ma poi, chissà perché, se n’era dimenticata.
Si ricordò d’aver letto che le anatre, se vogliono, possono volare molto lontano, anche fino in Africa, se vogliono. Lei non voleva andare in Africa, voleva solo volare un po’. Non era più convinta di essere un’anatra, però, essendosi ricordata di avere le ali, un bel giorno cominciò a volare.
Volava un poco tutti i giorni, ogni volta facendo un tratto più lungo. Volare le sembrò la cosa più naturale del mondo e si stupì di non averlo fatto prima.
Volò fino al mare e, quando lo vide da lontano, le sembrò la cosa più bella che le fosse capitata nella vita. Ci volò sopra per giorni, riempiendosi gli occhi di azzurro.
Ecco, pensò, se non mi fossi accorta di non essere nessuno, non m sarei mai ricordata di avere le ali.
E se non mi fossi ricordata di avere le ali, non avrei mai incontrato il mare".

(P. Mastracola, Che animale sei? Storia di una pennuta, Guanda, Parma 2005)

sabato 30 giugno 2012

Tour de France


Così parlò del Tour Lance Armstrong:
“Ho imparato cosa significasse partecipare al Tour de France.
Non ha nulla a che vedere con il ciclismo.
È una metafora della vita, non rappresenta solo la gara più lunga del mondo, ma anche la più esaltante, la più estenuante, la più potenzialmente tragica.
Pone di fronte al corridore ogni elemento possibile, e anche di più: freddo, caldo, montagne, pianure, solchi, gomme bucate, vento forte, sfortuna indescrivibile, bellezza impensabile, mancanza di sensi da intorpidimento e soprattutto una grande, profonda autoanalisi.
Anche nel corso della nostra vita siamo posti di fronte a così tanti elementi diversi, incontriamo così tanti ostacoli imprevisti, combattiamo un simile corpo a corpo con i fallimenti, abbassiamo la testa sotto la pioggia cercando di rimanere in piedi e di mantenere una piccola speranza.
Il Tour non è una gara di ciclismo, niente affatto: è una prova. Ti prova fisicamente, ti prova mentalmente, persino moralmente”.
Chissà che cronista ci vorrebbe per fare il commento ai nostri invisibili Tour. E chissà che racconto ne verrebbe.

sabato 23 giugno 2012

Certo andare di notte


Ci vorranno secoli per vedere e dire ciò che accade in questa notte.
Una lunghissima gestazione, perché quel che sarà detto sia vero.
Tra alcuni secoli, tornando da un’altra schiavitù, apparirà luminoso ciò che oggi è per noi massimamente oscuro.
Allora si parlerà di questa notte come di una liberazione al ritmo di una marcia trionfale; la ricorderanno come punto alfa, la saluteranno con onore come il capostipite da cui tutto ha preso inizio.
Allora, non oggi.
Oggi non è tempo di parola ma di marcia, notturna e di urgenza, di fretta, di concitazione.

Il popolo portò con sé la pasta prima che fosse lievitata, recando sulle spalle le madie avvolte nei mantelli. (…) Fecero cuocere la pasta che avevano portato dall’Egitto in forma di focacce azzime, perché non era lievitata: infatti erano stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio (Es 12,34.39).

Viene il tempo in cui l’ordinario è sconvolto da qualcosa che urge, qualcosa di altro, sconosciuto e irresistibile.
È spinta irrefrenabile e ha la forza di sfidare il più potente della terra.
Tanto è grande che occorrerà la distanza dei secoli per metterne a fuoco la misura e la portata.
La forza che si affranca dal forte è forza-che-libera. Non rovescia il potente per insediarsi al suo posto con tirannide più violenta e ottusa; lo rovescia introducendo in una terra in cui se ne possa fare a meno.
“Fare a meno” è il nome del potere di forza-che-libera
“Fare a meno” è il nome che più si avvicina a ciò che potrebbe essere libertà.

Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine» (Es 16,2-3).

Mormorare è sentire acre l’odore della beffa. E alimentarla.
Dimostrazione pratica dell’indisponibilità a imparare qualcosa di nuovo, chiusi nel bozzolo del sicuro déjà vu.
Oggi non è tempo di parola ma di marcia, di marcia impossibile e obbligata.
Con alle spalle il mare, che cancella l’orma di ogni passo, e davanti un deserto grande e spaventoso che nega con ostinazione ogni minimo segnavia, ogni qualsiasi segno di direzione.
Tra alcuni secoli parleranno di questa marcia come ora non è dato percepire.
Ne parleranno per tutti coloro cercheranno il nome alla loro notte.
Oggi rimane questo andare notturno, in una densissima oscurità che nega la parola e restituisce al solo vivere, nulla più.
Davanti sta una terra dove scorre latte e miele; è promessa, ma già l’assaporo nei paesaggi interiori che questo andare mi regala.

martedì 19 giugno 2012

Vedere


Seduto nel tram osservo con calma, com’è mia abitudine, i dettagli dei passeggeri che mi siedono di fronte. I dettagli sono per me cose, voci, lettere. Separo il vestito della ragazza che è davanti a me dalla stoffa di cui è fatto e dalla lavorazione che è stata necessaria a cucirlo (poiché lo vedo come vestito e non come stoffa), e il ricamo leggero che orla il colletto mi si divide nel filo di seta ritorto con il quale è stato ricamato e nella lavorazione che c’è voluta per ricamarlo. E immediatamente, come in un libro elementare di economia politica, si aprono davanti a me le fabbriche e le lavorazioni: la filanda dove è stato fatto il tessuto; la filanda dove è stato fatto il filo di seta ritorto, di un tono più scuro, che orla con increspature ricamate la stoffa del colletto; e vedo le sezioni delle fabbriche,  le macchine, gli operai, le sarte, i miei occhi rivolti all’interno penetrano negli uffici, vedo i dirigenti che cercano di essere tranquilli, seguo sui libri la contabilità di ogni cosa; ma non è solo questo: vedo, più in là, le vite domestiche di coloro che vivono la loro vita di esseri umani in quelle fabbriche e in quegli  uffici… 
Il mondo intero mi si srotola davanti agli occhi soltanto perché ho davanti a me, sotto un collo bruno che dall’altra parte ha un risvolto che ignoro, un orlo irregolare-regolare di un verde scuro sopra il verde chiaro di un vestito. 
Il consorzio  umano nel suo insieme è davanti ai miei occhi. Al di là di questo intuisco gli amori, i segreti intimi, l’anima di tutti coloro che hanno lavorato affinché questa donna che è davanti a me sul tram porti attorno al suo collo mortale la banalità sinuosa di un filo di seta ritorto verde scuro sul tessuto di un verde più chiaro.
La testa mi gira. […] Scendo dal tram esausto e sonnambulo. Ho vissuto tutta la vita.
(Fernando Pessoa)

lunedì 11 giugno 2012

Nascite

Dice la leggenda che un angelo cancella al neonato il ricordo di quello che ha saputo in grembo. C’è da svuotare il sacco prima di nascere. I bambini dentro la placenta sanno tutto il passato, le lingue, le avventure, pericoli e mestieri. Il loro scheletro è diventato pesce, rettile, uccello prima di fermarsi all’ultima stazione. Lo sforzo di espulsione dal corpo della madre serve a dimenticare. La rottura delle acque apre il varco che subito dietro si richiude, dopo il tuffo nel grembo. Il salto nell’asciutto produce azzeramento di tutta la sapienza accumulata nel sacco di placenta. Si attecchisce meglio dimenticando da dove si proviene. (Erri De Luca, E disse, p. 14)

Credo si nasca più volte nel corso di una vita.
E nascita è essere al giorno zero, nell’impossibilità di attingere a quel che precede. Come dice bene la leggenda rabbinica riportata da De Luca.
Poi quel che di nuovo, faticosamente si apprenderà, non sarà altro che qualcosa di arcanamente già conosciuto, un ancestrale familiare che viene incontro.
Da riconoscere, di cui fare tesoro, da custodire.
Fino a un nuovo stacco, quando ritorna il tempo di lasciare.
Perché sia ancora una nuova sconosciutissima nascita.

giovedì 7 giugno 2012

L'importante è la rosa


Il poeta tedesco Rilke (1875-1926) abitò per un certo periodo a Parigi. 
Per andare all’Università percorreva ogni giorno, in compagnia di una sua amica francese, una strada molto frequentata. 
Un angolo di questa via era permanentemente occupato da una mendicante ch chiedeva l’elemosina ai passanti. La donna sedeva sempre allo stesso posto, immobile come una statua, con la mano tesa e gli occhi fissi al suolo. 
Rilke non le dava mai nulla, mentre la sua compagna le donava spesso qualche moneta. 
Un giorno la giovane francese, meravigliata domandò al poeta: “Ma perché non dai mai nulla a quella poveretta?”. “Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani”, rispose il poeta. E il giorno dopo, Rilke arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l’atto di andarsene. 
Allora accadde qualcosa d’inatteso: la mendicante alzò gli occhi, guardò il poeta, si sollevò a stento da terra, prese la mano dell’uomo e la baciò. Poi se ne andò stringendo la rosa al seno. Per una intera settimana nessuno la vide più. 
Ma otto giorni dopo, la mendicante era di nuovo seduta nel solito angolo della via. Silenziosa e immobile come sempre. 
“Di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla?”, chiese la giovane francese. “Della rosa”, rispose il poeta.

Oggi ho avuto una rosa da un messaggio inatteso, una con una telefonata cordiale, un'altra con una mail con un allegato simpatico, un'altra ancora da una mail amica. 
A dispetto dell'apparenza e a ben guardare vivo in un giardino.

martedì 5 giugno 2012

Buon viaggio!


Oggi ho terminato il piccolo servizio al doposcuola.
Mi spiace non sia possibile continuare nell’imminenza dell’esame al termine della secondaria di primo grado.
Rimane vero che nello studio come in altro possiamo essere accompagnati fino a un certo punto, poi ci attende una navigazione personale.
Per alcuni mesi ho intercettato storie di ragazzi, da estranei siamo diventati tutti un po’ più familiari.
A loro queste parole di Gianni Rodari:
“Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte del mondo? Noi non lo sappiamo, perché egli sta ancora marciando con il coraggio e la decisione del primo giorno. Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: Buon Viaggio!”.
Volate, piccoli, volate!

lunedì 4 giugno 2012

Nonno Aurelio


È morto nonno Aurelio.
Dice così l’epigrafe funebre predisposta dai nipoti, anzitutto, dai figli e dai parenti.
Nello spazio che il Comune ha riservato a questi annunci, quello di nonno Aurelio sta in compagnia di altri; uno annuncia la morte di un Ing., l’altro quella di un Dott.
Anche per questo quello di nonno Aurelio si evidenzia da solo.
Lui solo un nome, neanche il cognome che sancisce l’appartenenza a una stirpe.
Un nome, ciò che ben più di un cognome si unisce indissolubilmente con la vita di ciascuno, e ne accompagna e struttura l’identità.
Ciò che risuona – e solo può – negli spazi delle relazioni più strette, dove la familiarità – meglio, la vicinanza e l’intimità – abilitano a pronunciarne i suoni.
Più del cognome, che risuona negli ambiti formali e funzionali (non a caso nel lavoro e nella scuola), dove siamo associati/identificati con un ruolo e un rendimento (scolastico, economico, lavorativo).
È morto nonno Aurelio. Nemmeno l'ho conosciuto.

giovedì 31 maggio 2012

Un motivo per far festa


Alcuni giorni fa, a cena da amici, ho ascoltato una parola che da giorni mi porto appresso.
Una parola che custodivano gelosamente come eredità preziosa:
“Diceva mio papà: C’è sempre un motivo per far festa”.
Sulle prime una parola che stona.
Mi ci è voluto del tempo per coglierne l’armonia.
Forse ci vuole tanta saggezza per comprenderla subito, e io non l’ho; di sicuro ce ne vuole per dirla come un distillato di sé.
A dispetto dell’apparenza festaiola e sbarazzina, trovo che sia una parola molto impegnativa.
È parola che allarga lo sguardo a scorgere – spesso in modo paradossale – il venire a noi di qualcosa di inatteso; a rinvenire nelle pieghe del nostro tessuto scampoli di grazia, ricami di bellezza. È invito a lasciarsi sorprendere da un ignoto che, nel suo apparire, mostra di conoscerci almeno un poco e di esserci così già familiare.
È difficile resistere e non cedere alla consuetudine del già noto, difficile trattenere i pensieri di disfatta che si concatenano e ci incatenano.
Chiede di alimentare le riserve in cantina e insieme anche di alleggerirle.
Una parola di leggerezza, che anch’io vorrei poter dire in verità.

mercoledì 30 maggio 2012

In punta di matita


Ho tra le mani un libro preso in prestito dalla biblioteca comunale.
Qualcosa di insolito, abituato come sono a comprare libri in abbondanza.
Un libro molto usato, tenuto insieme da strisce di scotch.
E con le pagine imbrunite dal tempo e dalla polvere, più scure sui bordi, come lingue di gatto.
Un libro segnato e sottolineato da colpi di matita, orizzontali e verticali, in un codice a me sconosciuto.
Resisto alla stizza della scoperta e allo stigma moralizzatore.
Certo, non si segnano i libri di una biblioteca.
Chissà, forse è stato donato alla biblioteca già usato, o forse no…
Quello che ho tra mano però è così.
Del resto anch’io – ne avessi una copia mia – l’avrei chiosato in tante pagine, come campo su cui passare l’aratro della matita.
Invece ho un libro che non è mio.
Passare una matita è per me il tentativo ingenuo e impossibile di appropriarmi delle parole che leggo, in cui mi rispecchio almeno per un attimo.
So che è così, anche quando cedo alla tentazione di farlo. Così quando lo riapro nel tempo, ritrovo le parole chiave – mi dico –, lo specchio che mi restituisce quel che oggi vedo sotto la punta della mia matita.
Eppure rimane una distanza abissale tra le parole che si leggono e quelle che si scrivono, scorrono ere tra le parole di altri e le proprie quando non vogliono essere citazione o riciclo di quelle altrui.
Assomigliano più ai tempi di una gestazione, che non a quelli di una digestione.
Sotto la punta della mia matita si nasconde (ma si vede) tutta l’ingordigia di conoscere, la cupidigia dell’accumulo che non conosce sazietà, la presunzione di non dover attraversare tempi e stagioni senza parole perché già ne esistono, pronte all’uso e alla violenza dell’abuso.
Il libro tra le mani non è mio, per fortuna di entrambi. 
Leggo un libro e leggo insieme l’autore che l’ha scritto, il personaggio che è narrato, la sottolineatura di chi l’ha letto e il mio stare in questo continuo intreccio di mondi, approdando all’una e all’altra costa di un’unica terra.

martedì 22 maggio 2012

Con il cuore gioioso


Radica l’amore dei santi nel tuo spirito; non dare il tuo cuore a null’altro che all’amore di quelli il cui cuore è gioioso.
Il cuore ti conduce verso gli uomini di cuore.
Oh! Da’ al tuo cuore il nutrimento che viene da colui il cui cuore è in accordo col tuo; va’ a  cercare l’evoluzione da colui che è evoluto (Mathnawī 730).

Sono parole di Jalāl al-Dīn Rūmī (1207-1273), poeta e mistico musulmano persiano contemporaneo di san Francesco.
Mi fermo alla prima frase e mi chiedo chi siano quelli il cui cuore è gioioso.
Non mi hanno mai convinto né attratto i tipi allegrotti e spensierati, quelli con cui è piacevole stare al massimo il tempo di un pranzo o di una cena, non di più. Almeno per la mia resistenza.
Rimango stupito quando incontro uomini e donne spesso con storie sofferte, e che stanno al mondo con leggerezza. Non superficialità o sbadataggine, non approssimazione né banalità, ma la leggerezza che porta tutto il pesante fardello della propria storia, senza sconti.
Un particolare mi incanta, da questo apprezzo la stoffa del mio interlocutore: dalla capacità – spesso a sua insaputa – di rendere un po’ più leggero anche il mio andare, più aperto il respiro, più libero lo sguardo. 
Sono quelli che ti regalano un inizio di primavera, un risveglio alle dimensioni più genuine di te.
Per me sono loro quelli il cui cuore è gioioso.
Forse è più facile incontrare chi appesantisce, chi aggiunge peso a peso, chi fornisce consigli non richiesti, chi ingombra il sentiero.
Di certo si fa prima a vedere gli altri così, difficile vedere sé.
“Non dare il tuo cuore a null’altro che all’amore di quelli il cui cuore è gioioso”.

giovedì 17 maggio 2012

Pozzo di inchiostro


“Non sento la mancanza di quello che ha potuto scrivere [Isaac Babel’]. Mi pesa la disperazione di un uomo che aveva un pozzo di inchiostro da intingere e gli fu sigillato con un pezzo di piombo nel cervello”.
È un passaggio dell’ultimo libro di Erri De Luca, Il torto del soldato.
Un passaggio fulmineo, come il suo scrivere, fatto di lampi più che di tessitura. Dei suoi libri a me rimangono solo pochi preziosi dettagli, mai la narrazione complessiva.
Questa pagina mi coglie di sorpresa: per scrivere occorre avere inchiostro...
Avrei detto idee, pensieri, almeno intuizioni. Inchiostro.
Scrivere è anche questione di inchiostro.
Da giorni mi fa compagnia questa immagine, che non riesco a indagare per intero; anche per questo mi affascina.
Un pozzo di inchiostro da intingere.
Perchè avanza sempre dell’inchiostro quando ci si mette a scrivere.
La scrittura stimola ad essere essenziali, possibilmente semplici ma mai banali, a non sprecare parole, lasciando che in esse si condensi quel che la vita ci ha insegnato.
Capita di leggere pagine dotate di questa leggerezza.
Ma capita ancor più di incontrare uomini e donne che sono parole vere, che portano il sapore antico e genuino della vita, che hanno conosciuto deserti e paludi, che hanno da qualche parte un pozzo di inchiostro. Sono le pagine che amo di più.

venerdì 11 maggio 2012

Non è un Paese per padri


Mi è capitato di ascoltare qualche giorno fa nella rubrica di Oscar Giannino su Radio 24 Nove in punto. La versione di Oscar* una chiacchierata con Giampaolo Pansa, a corredo della presentazione del suo ultimo libro Tipi sinistri.
Sono rimasto raggelato da una considerazione compiaciuta dell’ospite: ”per fortuna questo è un paese per vecchi”.
Il tono della chiacchierata lo si trova facilmente in qualsiasi bar.
In effetti questo è un Paese dove regna la gerontocrazia, difficile negarlo. Basta guardarsi in giro.
La questione non è che sia una battuta di Pansa, ma che è l’aria che tira.
Nei punti chiave ci possono stare solo uomini maturi, meglio se stagionati.
A dispetto della più banale logica di madre natura, e sfidando ogni regola di buon senso.
La presenza inamovibile dei maturi – in ogni ambito, nell’economia e nella politica, nel mondo del lavoro e nella scuola e nella Chiesa –, mi da a pensare; quando si veste di tracotanza mi fa pena.
Traspare l’arroganza di essere insostituibili.
A dispetto delle leggi di natura dove i frutti maturi non restano sulla pianta, ma cadono.
Farsi da parte è un passaggio ineludibile nella vita di ciascuno.
“Farsi da parte” è differente da “essere messi da parte”: chiede una forza propria, non la costrizione degli eventi.
Il nostro non è un Paese per padri: per questo credo sia un paese per vecchi.
Ci domina la logica dell’occupazione.
Abbiamo gli occhi protetti per vedere solo chi ci sta davanti, perché la corsa sia più spedita. Ma verso dove? Non importa, un pezzo più in là, un pezzo in più del mio collega, del mio vicino, del mio chiunque. Basta che sia in più.
Non riusciamo a vedere di lato e neppure dietro, solo davanti.
Come cavalli lanciati all’impazzata in una folle corsa.
Impossibile guardare le generazioni che ci seguono: ciascuno badi a sé.
Sogno un Paese per padri. E per figli.





domenica 6 maggio 2012

Sorella notte


Da qualche tempo ho scoperto che esiste la notte.
A volte vivo di notte, e vivo la notte.
Non so perché non mi sia accaduto prima.
Scoprirla fa perdere la misura del tempo: il giorno improvvisamente diventa tutto di ventiquattro ore e a volte anche di quarantotto.
Nella notte il tempo si restringe e si dilata a modo suo. Ci sono ore che sembrano eterne, ed altre che corrono veloci.
Ma è il cielo notturno quello che mi rapisce, come un mantello che tutti raccoglie sotto di sé.
Di notte tutto si ferma e la città appare indifesa, sguarnita, lasciata a se stessa.
Cambia anche il paesaggio, di notte: il tuo ambiente quasi non lo riconosci, e accetti ti venga mostrato il volto notturno del reale.
Di notte muoversi chiede di badare a non fare rumore, quasi un andare in punta di piedi, senza disturbare. Una bella parabola di vita. Perché è il silenzio a prendere la parola, silenzio corposo tutto da ascoltare, da riempirsi le orecchie. E per quanto strano sia, c’è un buio di cui riempirsi i polmoni.
Di notte ho scoperto che esistono uomini e donne invisibili, le cui vite sembrano correre al limite del possibile; il loro svolgersi di notte non le rende meno significative di altre diurne. Finché non le incontri non le puoi vedere; te le puoi immaginare, ma non conoscere. E quando il sole si alza, scopri che gli occhi stanno imparando a vedere gli invisibili anche in piena luce.
Così volentieri mi perdo a immaginare chi ci sia dietro e dentro quel ho tra le mani – non importa cosa esso sia: chi l’ha preparato, che vita può avere, che fatica può aver messo. Così aumenta il peso specifico. Il mio.

mercoledì 2 maggio 2012

"Come mia mamma"


Collaboro da alcuni mesi a un doposcuola per ragazzi delle medie.
Pardon, delle secondarie di primo grado.
Collaboro. Un modo per dire con un po’ di tono che faccio il volontario.
Mi è capitato di far seguire uno studio di geografia.Capitolo: il sud del continente asiatico, India e Pakistan. 
Leggiamo e riprendiamo, anche per tradurre in italiano l’inutile linguaggio accademico usato dall’autore del libro di testo.
La società indiana è caratterizzata da una forte disomogeneità sociale…
Disomogeneità… Anche solo far ripetere i suoni di questo termine a un ragazzino che è in Italia da un paio d’anni è un’impresa.
Benché la Costituzione Indiana proibisca ogni genere di discriminazione, il tessuto sociale risulta caratterizzato da forti disparità tra gruppi, in riferimento al tradizionale sistema della divisione in caste, con la presenza dei paria (lett. intoccabili).
Mi viene da sorridere: da noi gli intoccabili non sono proprio paria. 
Forza delle latitudini.
Provo a spiegare la condizione dei paria: intoccabile nel senso che nessuno vuol toccare, che tutti evitano. E con un lavoro per nulla pagato, che serve al massimo per mangiare in quella giornata.
E non posso non accennare a una differenza sostanziale: che da noi esiste una uguaglianza sostanziale, di diritto e che ciascuno col suo lavoro può modificare la sua condizione di vita, anche sociale. Mentre in una società divise in caste, dove e come nasci così muori, senza la possibilità che attraverso il lavoro ci si possa costruire il futuro.
Così è la condizione dei paria.
La ragazzina al mio fianco, senza alzare la testa, commenta: “Come mia mamma”.
Vorrei non aver sentito ma non posso lasciar cadere la battuta, soprattutto per la sua valenza personale.
Ci mettiamo a parlare un po’ della mamma, del suo lavoro, e del compito di conduzione della casa che spetta a lei tredicenne. Che rimane in casa più della mamma.
Avrei preferito non sentire e non vedere la realtà di molti oggi, giovani e non, me compreso. La realtà, non – come si vuol far credere – un’infelice congiuntura economica. L’oggi e il domani. Lo capisco benissimo.
Ho smesso di vendere sogni.
In questo sentire tanto le cose che dici, trovo il modo più vero per starti al fianco, cucciola.
La verifica di geografia incalza, riprendiamo il filo del discorso e mettiamo a schema le quattro cose da imparare a memoria per domani (e da domani dimenticare). Che l’India è vicina.

sabato 28 aprile 2012

Bio-ritmo

Dalla finestra di casa vedo transitare un ragazzo in ampi pantaloni a righe, torso nudo, infradito e rasta, e  accanto un altro, in bermuda, canotta e infradito.
È il terzo giorno caldo, del secondo anticipo d'estate.
Il meteo, con quel suo continuo scattare in avanti per poi tornare rapidamente indietro, sembra voler scherzare con il nostro corpo, come una serie di false partenze in una giocata a bandiera stecca, quando da bambini si voleva sfibrare la pazienza degli avversari.
Ma il nostro corpo non è fatto per lasciarsi facilmente ammaliare dall'imprevisto, sia pur piacevole come la temperatura di questi giorni.
Di fronte alla volubilità del meteo, agli eventi della cronaca o ai cambiamenti improvvisi che la vita ci "regala" (scelti o subiti poco importa) rimane un ritmo tutto nostro, diverso e persino estraneo ai tempi con i quali siamo soliti scandire il vivere.
C'è un ritmo della vita, della vita nostra, di cui l'agenda degli impegni non tiene conto, non ce la fa. Un ritmo temuto dalla giostra dei desideri e delle proiezioni, che nulla spartisce con l'ossessione dell'utilità e della produttività.
Un ritmo con le sue accelerazioni e le sue frenate, il suo movimento di dilatazione e quello di contrazione. Sempre diversi, evitandoci di andare d'abitudine.
Sempre diversi, per doverlo ricercare ogni volta daccapo, e ogni volta provare a rispettarlo un po' di più.
Tra alcuni giorni sembra ritorni un po' di brutto tempo, e torneremo ad andar in altalena con le temperature.
E speriamo di poter stare un po' di più tra il battere e il levare del nostro mistero.

giovedì 26 aprile 2012

"Se hai la bocca piena non puoi parlare"

Ai bambini si insegna a non parlare con la bocca piena.
"Se hai la bocca piena non puoi parlare" recita anche un proverbio africano.
In questi mesi la bocca mi si è proprio svuotata, è il caso di dirlo.
È così che ritrovo la parola.
Con la bocca vuota - e il vuoto di tante altre dimensioni essenziali del vivere - ho scoperto una sconosciuta prospettiva del reale, dalla quale guardare quel che accade in me e attorno a me.
Inestimabile è il suo valore, anche se quel che regala sembra non averne.
La bocca vuota, ogni esperienza di vuoto, mi fa attraversare da un fremito di genuina autenticità, ma sento che questo dono nasce già minacciato dalla pesantezza di questioni serie: il lavoro e la professionalità, il futuro, il tempo, le amicizie e gli affetti, i soldi, le paure, la fatica, la solitudine...
C'è una parola in tutto questo, una parola da non lasciar scappare nel suo apparire fugace, una parola da non schiacciare sotto il peso di quel che si impone per gravità come urgente.
Una parola che ha un sapore amico, e vivo, e fragile.
Ai bambini si insegna a non parlare con la bocca piena, eppure da adulti parliamo solo con la bocca piena, piena della nostra esperienza di vita, della nostra posizione professionale, delle nostre sicurezze economiche e affettive, piena delle convinzioni che riteniamo credenti e credute, piena anche di paure e di angosce ma pur sempre piena. E quando per qualche motivo si svuota, subito corriamo a riempirla.
Tra adulti è tutto un correre a mostrare quanto siamo pieni.
La parola sembra doversi prendere in forza del pieno, mai in debolezza del vuoto.
Mi chiedo che ne sarebbe se dovessimo far girare le parole genuine che ciascuno ascolta nel vuoto che vive e incontra. Così avremmo purificato l'aria da quel ristagno di lamentosità che ammorba i giorni.



PS. Ai bambini si insegna anche a dormire da soli e a non aver paura del buio, mentre la maggioranza degli adulti dorme e attraversa il buio in compagnia. Ma questa è tutta un'altra storia.