sabato 30 giugno 2012

Tour de France


Così parlò del Tour Lance Armstrong:
“Ho imparato cosa significasse partecipare al Tour de France.
Non ha nulla a che vedere con il ciclismo.
È una metafora della vita, non rappresenta solo la gara più lunga del mondo, ma anche la più esaltante, la più estenuante, la più potenzialmente tragica.
Pone di fronte al corridore ogni elemento possibile, e anche di più: freddo, caldo, montagne, pianure, solchi, gomme bucate, vento forte, sfortuna indescrivibile, bellezza impensabile, mancanza di sensi da intorpidimento e soprattutto una grande, profonda autoanalisi.
Anche nel corso della nostra vita siamo posti di fronte a così tanti elementi diversi, incontriamo così tanti ostacoli imprevisti, combattiamo un simile corpo a corpo con i fallimenti, abbassiamo la testa sotto la pioggia cercando di rimanere in piedi e di mantenere una piccola speranza.
Il Tour non è una gara di ciclismo, niente affatto: è una prova. Ti prova fisicamente, ti prova mentalmente, persino moralmente”.
Chissà che cronista ci vorrebbe per fare il commento ai nostri invisibili Tour. E chissà che racconto ne verrebbe.

sabato 23 giugno 2012

Certo andare di notte


Ci vorranno secoli per vedere e dire ciò che accade in questa notte.
Una lunghissima gestazione, perché quel che sarà detto sia vero.
Tra alcuni secoli, tornando da un’altra schiavitù, apparirà luminoso ciò che oggi è per noi massimamente oscuro.
Allora si parlerà di questa notte come di una liberazione al ritmo di una marcia trionfale; la ricorderanno come punto alfa, la saluteranno con onore come il capostipite da cui tutto ha preso inizio.
Allora, non oggi.
Oggi non è tempo di parola ma di marcia, notturna e di urgenza, di fretta, di concitazione.

Il popolo portò con sé la pasta prima che fosse lievitata, recando sulle spalle le madie avvolte nei mantelli. (…) Fecero cuocere la pasta che avevano portato dall’Egitto in forma di focacce azzime, perché non era lievitata: infatti erano stati scacciati dall’Egitto e non avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio (Es 12,34.39).

Viene il tempo in cui l’ordinario è sconvolto da qualcosa che urge, qualcosa di altro, sconosciuto e irresistibile.
È spinta irrefrenabile e ha la forza di sfidare il più potente della terra.
Tanto è grande che occorrerà la distanza dei secoli per metterne a fuoco la misura e la portata.
La forza che si affranca dal forte è forza-che-libera. Non rovescia il potente per insediarsi al suo posto con tirannide più violenta e ottusa; lo rovescia introducendo in una terra in cui se ne possa fare a meno.
“Fare a meno” è il nome del potere di forza-che-libera
“Fare a meno” è il nome che più si avvicina a ciò che potrebbe essere libertà.

Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine» (Es 16,2-3).

Mormorare è sentire acre l’odore della beffa. E alimentarla.
Dimostrazione pratica dell’indisponibilità a imparare qualcosa di nuovo, chiusi nel bozzolo del sicuro déjà vu.
Oggi non è tempo di parola ma di marcia, di marcia impossibile e obbligata.
Con alle spalle il mare, che cancella l’orma di ogni passo, e davanti un deserto grande e spaventoso che nega con ostinazione ogni minimo segnavia, ogni qualsiasi segno di direzione.
Tra alcuni secoli parleranno di questa marcia come ora non è dato percepire.
Ne parleranno per tutti coloro cercheranno il nome alla loro notte.
Oggi rimane questo andare notturno, in una densissima oscurità che nega la parola e restituisce al solo vivere, nulla più.
Davanti sta una terra dove scorre latte e miele; è promessa, ma già l’assaporo nei paesaggi interiori che questo andare mi regala.

martedì 19 giugno 2012

Vedere


Seduto nel tram osservo con calma, com’è mia abitudine, i dettagli dei passeggeri che mi siedono di fronte. I dettagli sono per me cose, voci, lettere. Separo il vestito della ragazza che è davanti a me dalla stoffa di cui è fatto e dalla lavorazione che è stata necessaria a cucirlo (poiché lo vedo come vestito e non come stoffa), e il ricamo leggero che orla il colletto mi si divide nel filo di seta ritorto con il quale è stato ricamato e nella lavorazione che c’è voluta per ricamarlo. E immediatamente, come in un libro elementare di economia politica, si aprono davanti a me le fabbriche e le lavorazioni: la filanda dove è stato fatto il tessuto; la filanda dove è stato fatto il filo di seta ritorto, di un tono più scuro, che orla con increspature ricamate la stoffa del colletto; e vedo le sezioni delle fabbriche,  le macchine, gli operai, le sarte, i miei occhi rivolti all’interno penetrano negli uffici, vedo i dirigenti che cercano di essere tranquilli, seguo sui libri la contabilità di ogni cosa; ma non è solo questo: vedo, più in là, le vite domestiche di coloro che vivono la loro vita di esseri umani in quelle fabbriche e in quegli  uffici… 
Il mondo intero mi si srotola davanti agli occhi soltanto perché ho davanti a me, sotto un collo bruno che dall’altra parte ha un risvolto che ignoro, un orlo irregolare-regolare di un verde scuro sopra il verde chiaro di un vestito. 
Il consorzio  umano nel suo insieme è davanti ai miei occhi. Al di là di questo intuisco gli amori, i segreti intimi, l’anima di tutti coloro che hanno lavorato affinché questa donna che è davanti a me sul tram porti attorno al suo collo mortale la banalità sinuosa di un filo di seta ritorto verde scuro sul tessuto di un verde più chiaro.
La testa mi gira. […] Scendo dal tram esausto e sonnambulo. Ho vissuto tutta la vita.
(Fernando Pessoa)

lunedì 11 giugno 2012

Nascite

Dice la leggenda che un angelo cancella al neonato il ricordo di quello che ha saputo in grembo. C’è da svuotare il sacco prima di nascere. I bambini dentro la placenta sanno tutto il passato, le lingue, le avventure, pericoli e mestieri. Il loro scheletro è diventato pesce, rettile, uccello prima di fermarsi all’ultima stazione. Lo sforzo di espulsione dal corpo della madre serve a dimenticare. La rottura delle acque apre il varco che subito dietro si richiude, dopo il tuffo nel grembo. Il salto nell’asciutto produce azzeramento di tutta la sapienza accumulata nel sacco di placenta. Si attecchisce meglio dimenticando da dove si proviene. (Erri De Luca, E disse, p. 14)

Credo si nasca più volte nel corso di una vita.
E nascita è essere al giorno zero, nell’impossibilità di attingere a quel che precede. Come dice bene la leggenda rabbinica riportata da De Luca.
Poi quel che di nuovo, faticosamente si apprenderà, non sarà altro che qualcosa di arcanamente già conosciuto, un ancestrale familiare che viene incontro.
Da riconoscere, di cui fare tesoro, da custodire.
Fino a un nuovo stacco, quando ritorna il tempo di lasciare.
Perché sia ancora una nuova sconosciutissima nascita.

giovedì 7 giugno 2012

L'importante è la rosa


Il poeta tedesco Rilke (1875-1926) abitò per un certo periodo a Parigi. 
Per andare all’Università percorreva ogni giorno, in compagnia di una sua amica francese, una strada molto frequentata. 
Un angolo di questa via era permanentemente occupato da una mendicante ch chiedeva l’elemosina ai passanti. La donna sedeva sempre allo stesso posto, immobile come una statua, con la mano tesa e gli occhi fissi al suolo. 
Rilke non le dava mai nulla, mentre la sua compagna le donava spesso qualche moneta. 
Un giorno la giovane francese, meravigliata domandò al poeta: “Ma perché non dai mai nulla a quella poveretta?”. “Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani”, rispose il poeta. E il giorno dopo, Rilke arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l’atto di andarsene. 
Allora accadde qualcosa d’inatteso: la mendicante alzò gli occhi, guardò il poeta, si sollevò a stento da terra, prese la mano dell’uomo e la baciò. Poi se ne andò stringendo la rosa al seno. Per una intera settimana nessuno la vide più. 
Ma otto giorni dopo, la mendicante era di nuovo seduta nel solito angolo della via. Silenziosa e immobile come sempre. 
“Di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla?”, chiese la giovane francese. “Della rosa”, rispose il poeta.

Oggi ho avuto una rosa da un messaggio inatteso, una con una telefonata cordiale, un'altra con una mail con un allegato simpatico, un'altra ancora da una mail amica. 
A dispetto dell'apparenza e a ben guardare vivo in un giardino.

martedì 5 giugno 2012

Buon viaggio!


Oggi ho terminato il piccolo servizio al doposcuola.
Mi spiace non sia possibile continuare nell’imminenza dell’esame al termine della secondaria di primo grado.
Rimane vero che nello studio come in altro possiamo essere accompagnati fino a un certo punto, poi ci attende una navigazione personale.
Per alcuni mesi ho intercettato storie di ragazzi, da estranei siamo diventati tutti un po’ più familiari.
A loro queste parole di Gianni Rodari:
“Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte del mondo? Noi non lo sappiamo, perché egli sta ancora marciando con il coraggio e la decisione del primo giorno. Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: Buon Viaggio!”.
Volate, piccoli, volate!

lunedì 4 giugno 2012

Nonno Aurelio


È morto nonno Aurelio.
Dice così l’epigrafe funebre predisposta dai nipoti, anzitutto, dai figli e dai parenti.
Nello spazio che il Comune ha riservato a questi annunci, quello di nonno Aurelio sta in compagnia di altri; uno annuncia la morte di un Ing., l’altro quella di un Dott.
Anche per questo quello di nonno Aurelio si evidenzia da solo.
Lui solo un nome, neanche il cognome che sancisce l’appartenenza a una stirpe.
Un nome, ciò che ben più di un cognome si unisce indissolubilmente con la vita di ciascuno, e ne accompagna e struttura l’identità.
Ciò che risuona – e solo può – negli spazi delle relazioni più strette, dove la familiarità – meglio, la vicinanza e l’intimità – abilitano a pronunciarne i suoni.
Più del cognome, che risuona negli ambiti formali e funzionali (non a caso nel lavoro e nella scuola), dove siamo associati/identificati con un ruolo e un rendimento (scolastico, economico, lavorativo).
È morto nonno Aurelio. Nemmeno l'ho conosciuto.