giovedì 31 maggio 2012

Un motivo per far festa


Alcuni giorni fa, a cena da amici, ho ascoltato una parola che da giorni mi porto appresso.
Una parola che custodivano gelosamente come eredità preziosa:
“Diceva mio papà: C’è sempre un motivo per far festa”.
Sulle prime una parola che stona.
Mi ci è voluto del tempo per coglierne l’armonia.
Forse ci vuole tanta saggezza per comprenderla subito, e io non l’ho; di sicuro ce ne vuole per dirla come un distillato di sé.
A dispetto dell’apparenza festaiola e sbarazzina, trovo che sia una parola molto impegnativa.
È parola che allarga lo sguardo a scorgere – spesso in modo paradossale – il venire a noi di qualcosa di inatteso; a rinvenire nelle pieghe del nostro tessuto scampoli di grazia, ricami di bellezza. È invito a lasciarsi sorprendere da un ignoto che, nel suo apparire, mostra di conoscerci almeno un poco e di esserci così già familiare.
È difficile resistere e non cedere alla consuetudine del già noto, difficile trattenere i pensieri di disfatta che si concatenano e ci incatenano.
Chiede di alimentare le riserve in cantina e insieme anche di alleggerirle.
Una parola di leggerezza, che anch’io vorrei poter dire in verità.

mercoledì 30 maggio 2012

In punta di matita


Ho tra le mani un libro preso in prestito dalla biblioteca comunale.
Qualcosa di insolito, abituato come sono a comprare libri in abbondanza.
Un libro molto usato, tenuto insieme da strisce di scotch.
E con le pagine imbrunite dal tempo e dalla polvere, più scure sui bordi, come lingue di gatto.
Un libro segnato e sottolineato da colpi di matita, orizzontali e verticali, in un codice a me sconosciuto.
Resisto alla stizza della scoperta e allo stigma moralizzatore.
Certo, non si segnano i libri di una biblioteca.
Chissà, forse è stato donato alla biblioteca già usato, o forse no…
Quello che ho tra mano però è così.
Del resto anch’io – ne avessi una copia mia – l’avrei chiosato in tante pagine, come campo su cui passare l’aratro della matita.
Invece ho un libro che non è mio.
Passare una matita è per me il tentativo ingenuo e impossibile di appropriarmi delle parole che leggo, in cui mi rispecchio almeno per un attimo.
So che è così, anche quando cedo alla tentazione di farlo. Così quando lo riapro nel tempo, ritrovo le parole chiave – mi dico –, lo specchio che mi restituisce quel che oggi vedo sotto la punta della mia matita.
Eppure rimane una distanza abissale tra le parole che si leggono e quelle che si scrivono, scorrono ere tra le parole di altri e le proprie quando non vogliono essere citazione o riciclo di quelle altrui.
Assomigliano più ai tempi di una gestazione, che non a quelli di una digestione.
Sotto la punta della mia matita si nasconde (ma si vede) tutta l’ingordigia di conoscere, la cupidigia dell’accumulo che non conosce sazietà, la presunzione di non dover attraversare tempi e stagioni senza parole perché già ne esistono, pronte all’uso e alla violenza dell’abuso.
Il libro tra le mani non è mio, per fortuna di entrambi. 
Leggo un libro e leggo insieme l’autore che l’ha scritto, il personaggio che è narrato, la sottolineatura di chi l’ha letto e il mio stare in questo continuo intreccio di mondi, approdando all’una e all’altra costa di un’unica terra.

martedì 22 maggio 2012

Con il cuore gioioso


Radica l’amore dei santi nel tuo spirito; non dare il tuo cuore a null’altro che all’amore di quelli il cui cuore è gioioso.
Il cuore ti conduce verso gli uomini di cuore.
Oh! Da’ al tuo cuore il nutrimento che viene da colui il cui cuore è in accordo col tuo; va’ a  cercare l’evoluzione da colui che è evoluto (Mathnawī 730).

Sono parole di Jalāl al-Dīn Rūmī (1207-1273), poeta e mistico musulmano persiano contemporaneo di san Francesco.
Mi fermo alla prima frase e mi chiedo chi siano quelli il cui cuore è gioioso.
Non mi hanno mai convinto né attratto i tipi allegrotti e spensierati, quelli con cui è piacevole stare al massimo il tempo di un pranzo o di una cena, non di più. Almeno per la mia resistenza.
Rimango stupito quando incontro uomini e donne spesso con storie sofferte, e che stanno al mondo con leggerezza. Non superficialità o sbadataggine, non approssimazione né banalità, ma la leggerezza che porta tutto il pesante fardello della propria storia, senza sconti.
Un particolare mi incanta, da questo apprezzo la stoffa del mio interlocutore: dalla capacità – spesso a sua insaputa – di rendere un po’ più leggero anche il mio andare, più aperto il respiro, più libero lo sguardo. 
Sono quelli che ti regalano un inizio di primavera, un risveglio alle dimensioni più genuine di te.
Per me sono loro quelli il cui cuore è gioioso.
Forse è più facile incontrare chi appesantisce, chi aggiunge peso a peso, chi fornisce consigli non richiesti, chi ingombra il sentiero.
Di certo si fa prima a vedere gli altri così, difficile vedere sé.
“Non dare il tuo cuore a null’altro che all’amore di quelli il cui cuore è gioioso”.

giovedì 17 maggio 2012

Pozzo di inchiostro


“Non sento la mancanza di quello che ha potuto scrivere [Isaac Babel’]. Mi pesa la disperazione di un uomo che aveva un pozzo di inchiostro da intingere e gli fu sigillato con un pezzo di piombo nel cervello”.
È un passaggio dell’ultimo libro di Erri De Luca, Il torto del soldato.
Un passaggio fulmineo, come il suo scrivere, fatto di lampi più che di tessitura. Dei suoi libri a me rimangono solo pochi preziosi dettagli, mai la narrazione complessiva.
Questa pagina mi coglie di sorpresa: per scrivere occorre avere inchiostro...
Avrei detto idee, pensieri, almeno intuizioni. Inchiostro.
Scrivere è anche questione di inchiostro.
Da giorni mi fa compagnia questa immagine, che non riesco a indagare per intero; anche per questo mi affascina.
Un pozzo di inchiostro da intingere.
Perchè avanza sempre dell’inchiostro quando ci si mette a scrivere.
La scrittura stimola ad essere essenziali, possibilmente semplici ma mai banali, a non sprecare parole, lasciando che in esse si condensi quel che la vita ci ha insegnato.
Capita di leggere pagine dotate di questa leggerezza.
Ma capita ancor più di incontrare uomini e donne che sono parole vere, che portano il sapore antico e genuino della vita, che hanno conosciuto deserti e paludi, che hanno da qualche parte un pozzo di inchiostro. Sono le pagine che amo di più.

venerdì 11 maggio 2012

Non è un Paese per padri


Mi è capitato di ascoltare qualche giorno fa nella rubrica di Oscar Giannino su Radio 24 Nove in punto. La versione di Oscar* una chiacchierata con Giampaolo Pansa, a corredo della presentazione del suo ultimo libro Tipi sinistri.
Sono rimasto raggelato da una considerazione compiaciuta dell’ospite: ”per fortuna questo è un paese per vecchi”.
Il tono della chiacchierata lo si trova facilmente in qualsiasi bar.
In effetti questo è un Paese dove regna la gerontocrazia, difficile negarlo. Basta guardarsi in giro.
La questione non è che sia una battuta di Pansa, ma che è l’aria che tira.
Nei punti chiave ci possono stare solo uomini maturi, meglio se stagionati.
A dispetto della più banale logica di madre natura, e sfidando ogni regola di buon senso.
La presenza inamovibile dei maturi – in ogni ambito, nell’economia e nella politica, nel mondo del lavoro e nella scuola e nella Chiesa –, mi da a pensare; quando si veste di tracotanza mi fa pena.
Traspare l’arroganza di essere insostituibili.
A dispetto delle leggi di natura dove i frutti maturi non restano sulla pianta, ma cadono.
Farsi da parte è un passaggio ineludibile nella vita di ciascuno.
“Farsi da parte” è differente da “essere messi da parte”: chiede una forza propria, non la costrizione degli eventi.
Il nostro non è un Paese per padri: per questo credo sia un paese per vecchi.
Ci domina la logica dell’occupazione.
Abbiamo gli occhi protetti per vedere solo chi ci sta davanti, perché la corsa sia più spedita. Ma verso dove? Non importa, un pezzo più in là, un pezzo in più del mio collega, del mio vicino, del mio chiunque. Basta che sia in più.
Non riusciamo a vedere di lato e neppure dietro, solo davanti.
Come cavalli lanciati all’impazzata in una folle corsa.
Impossibile guardare le generazioni che ci seguono: ciascuno badi a sé.
Sogno un Paese per padri. E per figli.





domenica 6 maggio 2012

Sorella notte


Da qualche tempo ho scoperto che esiste la notte.
A volte vivo di notte, e vivo la notte.
Non so perché non mi sia accaduto prima.
Scoprirla fa perdere la misura del tempo: il giorno improvvisamente diventa tutto di ventiquattro ore e a volte anche di quarantotto.
Nella notte il tempo si restringe e si dilata a modo suo. Ci sono ore che sembrano eterne, ed altre che corrono veloci.
Ma è il cielo notturno quello che mi rapisce, come un mantello che tutti raccoglie sotto di sé.
Di notte tutto si ferma e la città appare indifesa, sguarnita, lasciata a se stessa.
Cambia anche il paesaggio, di notte: il tuo ambiente quasi non lo riconosci, e accetti ti venga mostrato il volto notturno del reale.
Di notte muoversi chiede di badare a non fare rumore, quasi un andare in punta di piedi, senza disturbare. Una bella parabola di vita. Perché è il silenzio a prendere la parola, silenzio corposo tutto da ascoltare, da riempirsi le orecchie. E per quanto strano sia, c’è un buio di cui riempirsi i polmoni.
Di notte ho scoperto che esistono uomini e donne invisibili, le cui vite sembrano correre al limite del possibile; il loro svolgersi di notte non le rende meno significative di altre diurne. Finché non le incontri non le puoi vedere; te le puoi immaginare, ma non conoscere. E quando il sole si alza, scopri che gli occhi stanno imparando a vedere gli invisibili anche in piena luce.
Così volentieri mi perdo a immaginare chi ci sia dietro e dentro quel ho tra le mani – non importa cosa esso sia: chi l’ha preparato, che vita può avere, che fatica può aver messo. Così aumenta il peso specifico. Il mio.

mercoledì 2 maggio 2012

"Come mia mamma"


Collaboro da alcuni mesi a un doposcuola per ragazzi delle medie.
Pardon, delle secondarie di primo grado.
Collaboro. Un modo per dire con un po’ di tono che faccio il volontario.
Mi è capitato di far seguire uno studio di geografia.Capitolo: il sud del continente asiatico, India e Pakistan. 
Leggiamo e riprendiamo, anche per tradurre in italiano l’inutile linguaggio accademico usato dall’autore del libro di testo.
La società indiana è caratterizzata da una forte disomogeneità sociale…
Disomogeneità… Anche solo far ripetere i suoni di questo termine a un ragazzino che è in Italia da un paio d’anni è un’impresa.
Benché la Costituzione Indiana proibisca ogni genere di discriminazione, il tessuto sociale risulta caratterizzato da forti disparità tra gruppi, in riferimento al tradizionale sistema della divisione in caste, con la presenza dei paria (lett. intoccabili).
Mi viene da sorridere: da noi gli intoccabili non sono proprio paria. 
Forza delle latitudini.
Provo a spiegare la condizione dei paria: intoccabile nel senso che nessuno vuol toccare, che tutti evitano. E con un lavoro per nulla pagato, che serve al massimo per mangiare in quella giornata.
E non posso non accennare a una differenza sostanziale: che da noi esiste una uguaglianza sostanziale, di diritto e che ciascuno col suo lavoro può modificare la sua condizione di vita, anche sociale. Mentre in una società divise in caste, dove e come nasci così muori, senza la possibilità che attraverso il lavoro ci si possa costruire il futuro.
Così è la condizione dei paria.
La ragazzina al mio fianco, senza alzare la testa, commenta: “Come mia mamma”.
Vorrei non aver sentito ma non posso lasciar cadere la battuta, soprattutto per la sua valenza personale.
Ci mettiamo a parlare un po’ della mamma, del suo lavoro, e del compito di conduzione della casa che spetta a lei tredicenne. Che rimane in casa più della mamma.
Avrei preferito non sentire e non vedere la realtà di molti oggi, giovani e non, me compreso. La realtà, non – come si vuol far credere – un’infelice congiuntura economica. L’oggi e il domani. Lo capisco benissimo.
Ho smesso di vendere sogni.
In questo sentire tanto le cose che dici, trovo il modo più vero per starti al fianco, cucciola.
La verifica di geografia incalza, riprendiamo il filo del discorso e mettiamo a schema le quattro cose da imparare a memoria per domani (e da domani dimenticare). Che l’India è vicina.