Alcuni
giorni fa, a cena da amici, ho ascoltato una parola che da giorni mi porto
appresso.
Una
parola che custodivano gelosamente come eredità preziosa:
“Diceva
mio papà: C’è sempre un motivo per far festa”.
Sulle
prime una parola che stona.
Mi ci è voluto
del tempo per coglierne l’armonia.
Forse ci
vuole tanta saggezza per comprenderla subito, e io non l’ho; di sicuro ce ne
vuole per dirla come un distillato di sé.
A
dispetto dell’apparenza festaiola e sbarazzina, trovo che sia una parola molto
impegnativa.
È parola
che allarga lo sguardo a scorgere – spesso in modo paradossale – il venire a
noi di qualcosa di inatteso; a rinvenire nelle pieghe del nostro tessuto
scampoli di grazia, ricami di bellezza. È invito a lasciarsi sorprendere da un
ignoto che, nel suo apparire, mostra di conoscerci almeno un poco e di esserci
così già familiare.
È difficile
resistere e non cedere alla consuetudine del già noto, difficile trattenere i
pensieri di disfatta che si concatenano e ci incatenano.
Chiede di
alimentare le riserve in cantina e insieme anche di alleggerirle.
Una parola
di leggerezza, che anch’io vorrei poter dire in verità.